L’infermiere napoletano a Milano: “Social aggravano l’emergenza Covid, ma torneranno calcetto e pizza fuori”

Vive in Lombardia dal 2001 e da 19 anni fa l’infermiere in un importante ospedale di Milano. Lavora attualmente nel reparto di endoscopia digestiva dopo varie esperienze. Roberto Silva, napoletano di Gianturco ma cresciuto a piazza Mercato, è uno dei tanti emigranti di media data, diverso da quelli con valigia di cartone degli anni ’50 e ’60 e diverso anche da quelli variegati che hanno contribuito e contribuiscono ancora a svuotare il Sud di varie figure umane e professionali.

In 19 anni in ospedale ne aveva viste tante, così tante che stenta a definire questo il momento più delicato. E individua tra le concause anche l’avvento dei social che contribuiscono al brutto clima che si è creato anche intorno alla sua professione. E’ convinto che passerà e che si potrà tornare alla normalità; che per lui si chiama soprattutto “calcetto”, pizza al ristorante e partite del Napoli allo stadio. Le sue considerazioni sull’emergenza sanitaria fanno riflettere per la capacità di non perdere equilibrio e obiettività nonostante il coinvolgimento diretto, anzi direttissimo, in tutta la vicenda.

E’ il momento più brutto da quando lavori in ospedale?

“Quando si lavora in ospedale si fa fatica a ricordare quale sia il momento più brutto. È un lavoro che oltre alle capacità pratiche richiede soprattutto capacità emotive; e le emozioni spesso riducono le capacità o in alcuni casi le amplificano. Questo di sicuro è un momento di incertezza, quando si ha a che fare con un male ignoto perdi un po’ di fiducia nei mezzi a disposizione e questa sensazione è palpabile. La prima ondata è stata un mix di paura, coraggio, sconforto e fierezza. In questa seconda ondata, complice la stanchezza della gente, è tutto più chiaro ma paradossalmente più pesante. La gente cerca colpevoli anziché soluzioni e se mentre nella prima ondata eravamo gli eroi da sostenere, oggi siamo gli sciacalli da abbattere. Quindi direi che questo non è di sicuro uno dei momenti migliori”.

Molti tuoi colleghi direttamente coinvolti hanno tentato di sensibilizzare anche attraverso foto e testimonianze shock. È una cosa utile o forse si esagera?

“Noi, io come i miei colleghi, ci siamo sentiti un po’ come quel calciatore che ha la palla gol tra i piedi in una finale di Coppa del Mondo. Quindi abbiamo assistito a campagne di ogni tipo, dall’egocentrico che esagerava con i selfie, al prudente che cercava di spiegare la pericolosità del virus, all’insofferente che odiava qualsiasi cosa varcasse le mura di casa, fino ad arrivare al romantico che raccontava aneddoti strappalacrime per sensibilizzare l’opinione pubblica. La linea di confine tra il giusto e l’esagerato è davvero sottile. Abbiamo capito che l’avvento dei social in situazioni drammatiche di questa portata può rivelarsi davvero dannoso. L’opinione pubblica viene violentata ogni giorno da notizie vere, false e contraddizioni di ogni tipo che accompagnate ad una percentuale di ignoranza altissima, mette a rischio gli sforzi immani che gli operatori sanitari sono costretti a fare ad ogni turno”.

C’è chi parla di vacanze natalizie. Molti del vostro settore non sanno neanche se e come le fanno.

“Il Natale è alle porte e per chi come me ha due figlie fuori regione, una di 22 anni a Napoli e una di 9 a Reggio (due regioni rosse, ndr), di sicuro è un momento nel quale ci si ritrova dopo tanta assenza. È quasi sacro. Però quest’anno non sappiamo se a noi operatori verrà consentito di usufruire delle ferie (ad oggi sono state bloccate a tutto il personale sanitario di ogni ordine e ruolo). Spero che nei prossimi giorni le restrizioni comincino a dare i loro frutti anche perché non saprei davvero come spiegarlo a mia figlia”.

Parliamo di cibo: la tua pizza preferita?

“La pizza, punto. E’ lei la mia preferita. In qualsiasi modo, anche bianca con un po’ di olio. La pizza è appartenenza, davanti ad una qualsiasi pizza comincio a parlare in dialetto per gustarmela meglio. Se dovessi scegliere adesso sarei indeciso tra un bel calzone ripieno oppure una margherita con ricotta provola e pepe. Sono a Milano dal 2001 e devo dire che la mia conoscenza culinaria si è arricchita a dismisura. Prediligo la cucina della mia città che per me rimane sempre la migliore in assoluto ma adoro la polenta taragna, i pizzoccheri e le orecchiette alla barese. Ovviamente davanti ad una genovese o ad un ragù napoletano (che ho fatto l’altra domenica), non c’è piatto che tenga! Lo scialatiello ai frutti di mare occupa il terzo gradino del podio, magari accompagnato da un freschissimo greco di tufo e perché no, da un’abbondante impepata di cozze”.

E in quasi 20 anni a Milano cosa è cambiato sotto l’aspetto del cibo? Da quando è più facile trovare pizza buona e forse anche un caffè decente?
“A Milano ho provato quasi tutti i ristoranti napoletani, nell’ultimo anno grazie ai miei amici di Milano Azzurra ho avuto la fortuna di conoscere Francesco (in arte Ciccio Pizza) presso il quale sono solito mangiare tutte le delizie napoletane a partire dalla pizza per poi passare al suo cuoppo di fritturine miste per finire poi con i dolci della tradizione partenopea. Abbiamo stretto un bellissimo rapporto e lui mi vizia, ne sa qualcosa la mia bilancia. Per quanto riguarda il caffè basta andare ad un bar che dista un’ora e mezza da Milano. Prendi l’aereo direzione Capodichino e bevi il miglior caffè del mondo”.

Quanto manca il calcio e soprattutto il calcetto?
“Il calcio è la cosa che mi manca di più, da tifoso, come tutti, ho ancora la fortuna di seguire la mia squadra del cuore in TV, anche se non è proprio la stessa cosa. Vedere le partite in solitudine non ti dà quella soddisfazione che hai quando dopo un gol abbracci un tuo amico, sono esultanze represse. Ma ciò che mi manca è il calcetto; come secondo lavoro organizzo eventi sportivi e chi ha partecipato ai miei eventi sa quanta passione ci metto. Sono un perfezionista in quell’ambito, non essendo io un campione ho sempre sognato di vestire i panni di quelli veri, ma capendo che non ci sarei mai riuscito ho cercato di regalare a tutti un’opportunità di sentirsi bravo anche se solo amatorialmente. Cerco di simulare fedelmente quelle che sono le dinamiche, i premi, le caratteristiche del calcio professionistico. È un lavoro che mi impegna tantissimo ed occupa gran parte del mio tempo, capirai la sofferenza che provo a non poterlo fare. Le giornate si allungano inesorabilmente ed il pensiero costante è sempre quello: un giorno tutto finirà e tornerò a giocare e a fare giocare. Questo pensiero mi aiuta ad andare avanti e sperare che tutto tornerà come prima”.
Dario De Simone