Enzo “Tammurriello” Esposito: “Divulgare le storie del passato attraverso la danza popolare è un’esigenza spirituale”

Parlare con un 35enne come farlo con un 90enne. E’ quel che accade confrontandosi con Enzo “Tammurriello” Esposito, artista di Secondigliano e divulgatore di un passato che è quasi del tutto scomparso. Ma non dimenticato. Dalle parole traspare l’amore per la famiglia, le tradizioni, la storia.

E sono queste componenti, unite alla terra, che l’hanno aiutato nell’intraprendere la carriera di danzatore. Tra i ricordi più suggestivi tramandati dai familiari c’è quello di quelli che potremmo definire gli antichi riders, che all’epoca erano i garzoni della pizzeria Suppella, che giravano per il quartiere Secondigliano per vendere di casa in casa la cosiddetta “pizza oggi ad otto” con un grande tegame di rame in testa. Ma ogni risposta porta a ricordi del passato a cui si deve restare ancorati.
Tempi difficili quelli della pandemia, ma non inutili. E’ in quel periodo che è nato un progetto svolto con Gianluca Malpeso, un collega di Aversa che vive a Marsiglia. Ed è nella zona più popolare della città francese che è stato girato il video di alberi spogli che danno il senso della processione.

Quando, come e perché ti è venuta l’idea del soprannome “Tammurriello”?

“Qualche anno fa, quando avevo appena 15 anni, in una festa popolare di tammurriate con alcune comunità di anziani c’era un partecipante di nome Sabatino che mi osservò attentamente e mi avvicinò dicendomi che io nel cercare di praticare questa danza tipica campana stavo sfiancando la mia partner; ero in pratica un esagitato mentre quella danza andava ballata in un modo più accomodante e meno forsennato, seguendo maggiormente il ritmo del tamburo. Mi ha dato preziosi consigli. Ed è stato lui a battezzarmi “Tammurriello”, è stata una sorta di iniziazione all’interno di questa danza rituale. Ne vado orgoglioso perché apprezzo molto quel mondo rurale e contadino fatto di gente molto semplice, mondo che comunque negli ultimi anni è cambiato parecchio pur mantenendo i suoi codici fondamentali di linguaggio”.

Cosa ti ha portato ad intraprendere questa strada in un settore così particolare?

“Ho studiato al Liceo Artistico e poi in Accademia quindi è una cosa che partiva da lontano. Ho scelto la scenografia teatrale, il costume teatrale. Sono rimasto però ancorato alle tradizioni locali e non; parlando di danza sono molto affascinato da quella mediterranea perché sul piano antropologico e sociologico siamo nello stesso calderone, un unicum che comprende il Regno di Napoli e le influenze del mondo arabo, maghrebino e del Medio Oriente. Basti pensare alla nostra tipica tarantella del Seicento napoletano che è stata influenzata dagli spagnoli, in particolare andalusi. I gitani locali ci hanno sicuramente condizionato nel corso dei secoli e sarebbe più giusto dire nel corso dei millenni. Gli antichi popoli erano abituati a praticare danze rituali e divinatorie; quello che abbiamo visto più avanti è solo la naturale evoluzione. Il mio obiettivo è quello di trovare linguaggi più contemporanei che possano agevolare lo spettatore, ma restando legato alla tradizione”.

Quanto sono stati difficili gli ultimi due anni dove il mondo dell’intrattenimento è stato continuamente bersagliato dai provvedimenti del Governo?

“Il nostro settore ha rischiato un disastro totale, ha rischiato di scomparire. In realtà all’interno di esso ci sono vari comparti che non riescono più a coordinarsi. Manca un ente che in Campania possa sostenerci, manca la coesione tra noi stessi. Ognuno si sta reinventando per risollevarsi da questo momento così difficile. In generale c’è pochissima attenzione alla cultura, soprattutto a quella che vuole far riscoprire tradizioni territoriali. Durante il periodo del lock down ho raccolto testimonianze di memorie storiche del quartiere Secondigliano per dare vita ad un progetto particolare che punta a far conoscere i tesori che abbiamo”.

C’è un legame molto forte tra la tua arte e le iniziative religiose, in particolare del tuo quartiere

“A Secondigliano cerco, mi sforzo di mettere insieme i tasselli per preservare origini e tradizioni locali. Il nostro territorio era bellissimo e florido, pensiamo solo alla produzione di seta e canapa. Sotto il Regno eravamo un posto bellissimo fatto di piccole realtà industriali che puntavano sul locale. E c’era il turismo grazie all’aria salubre del territorio. Venivano i nobili in villeggiatura e questo ci ha portato cose buone perché fu un riscatto territoriale a quei tempi. Di quell’epoca gli unici ricordi sono legati alle masserie esistenti e alla toponomastica. E poi c’è la devozione, un aspetto fondamentale per me e per il territorio. Sento l’esigenza di trasmettere un sentimento popolare avuto in dono da mia nonna Addolorata che ha quasi 90 anni e mi aiuta a ricordare la Secondigliano che fu”.

Come è cambiata la Secondigliano dell’ultimo ventennio?

“Tanto. Ho solo 35 anni ma ho vissuto il passaggio dagli anni ’90 al nuovo millennio. In pochi anni c’è stato un cambiamento radicale. Ho vissuto la realtà del cortile grazie alla casa dei miei nonni. Avevano casa e magazzino nello stesso posto, come si faceva all’epoca. Era uno stile di vita che però è radicalmente cambiato. A Secondigliano hanno preso il sopravvento altre attività, sono cambiati i colori, i profumi, i volti, i giochi”.

Sei uno di quelli che ritengono Gomorra deleteria per l’immagine di Napoli e di Secondigliano oppure pensi che in un modo o nell’altro la realtà vada comunque raccontata?

“Nulla è deleterio se viene ben raccontato. Noi conviviamo da anni con una piaga sociale che va spiegata, raccontata ma non andrebbe esasperata perché a volte sembra che certi prodotti esaltino una cultura corrotta che già è purtroppo radicata in alcuni territori come il nostro. Mi sento un fortunato perché la famiglia mi ha dato certi valori diversi. Ho lavorato con cooperative sociali e ho cercato di portare questo tipo di cultura tra persone che si trovavano in carcere, a Pozzuoli e a Nisida; l’esperienza con i minori a rischio andrebbe raccontata così come quella nei centri di riabilitazione mentale. Mi dispiace dire che le politiche sociali spesso non ci sono, sono insufficienti e si fa tanta fatica”.

Parliamo di cibo: un ballerino a cosa deve stare attento per non mettere su chili di troppo?

“Non mi reputo un ballerino, ma un danzatore. Ognuno sviluppa linguaggi coreutici molto personali. Il fisico incide non poco, è vero. A volte si notano corpi statuari maschili e femminili, ma spesso è una apparenza che non è sinonimo di equilibrio interno. L’equilibrio è tutto per un danzatore perché permette di esprimersi nel modo migliore. Se dovessi utilizzare un termine appropriato parlerei di armonia dei sensi. Ho visto danzatori e danzatrici meno perfetti, diciamo un po’ fuori forma o con difetti, ma adatti a certi tipi di danze. Esagerare col cibo è sempre sbagliato, ma chi ha una vita frenetica deve consumare buon cibo, buono più che tanto. Oggi in giro c’è tanto cibo spazzatura e sarebbe bello tornare al passato”.

Lo chiediamo a tutti: la pizza preferita da Enzo?

“La Margherita. E’ il cuore della tradizione di cui tutti conosciamo la storia. Però la cosiddetta Marinara con l’origano non mi dispiace. Era la pizza del popolo, un impasto facile che la gente preferiva soprattutto quando si potevano mettere le acciughe”.

Dario De Simone