Viaggio al Malaga: tradizione, buon pesce e le mitiche maglie dell’Avellino in serie A

E’ una istituzione del territorio avellinese. Almeno un irpino su due è stato a mangiare lì, mentre un forestiero su tre vi ha pernottato. E’ il Malaga, l’attività alberghiera e di ristorazione che da oltre 50 anni è un punto di riferimento per tutti. Ha cambiato sede, solo poche centinaia di metri, sempre ad Atripalda.
Oggi a gestire l’attività è Diego Nigro, nipote del fondatore. Il nonno, originario di Tufo, vendeva vini ed era arrivato ad Avellino nel 1958; pochi anni dopo, nel 1964, la decisione di aprire una nuova attività. Era l’anno dell’ultimo scudetto del Bologna, un anno che Diego ha stampato sul suo grembiule di battaglia; e il calcio – lo vedremo – c’entra molto…

Da dove nasce il nome “Malaga”?

“In quegli anni andava di moda chiamare i ristoranti e i bar con i nomi delle città; e allora c’erano il Cafè de Paris, il ristorante Roma. Decisero per Malaga perché in Spagna andavano di moda le locande; siccome il nonno vendeva vino e aveva molte cose in legno usò quello delle botti per arredarlo. Il fratello di papà era amico del sindaco di Malaga e gli scrisse per farsi inviare delle cose per completare l’arredamento. Nel ristorante c’è ancora la copia della lettera originale che custodisco con orgoglio. Abbiamo i manifesti originali delle corride con il timbro originale del Comune”.

Siete nel cuore dell’entroterra campano però siete molto famosi per il pesce: una scelta che paga?

“Fino all’inizio degli anni ’80 non era così. La cuoca è stata a lungo mia mamma e si faceva una cucina semplice del territorio, dalla pasta coi funghi ad altri piatti. Poi fu data una svolta, lo volle papà e fu una scelta azzeccatissima. Ad Avellino tutti facevano cucina del territorio e allora iniziò a portare il pesce in città, i frutti di mare e altro. Erano anni di grande fervore perché l’Avellino andò in serie A e tanti calciatori da tutta Italia arrivarono da queste parti”.

Siete un punto di riferimento per molti di loro. A chi siete più legati?

“Ai calciatori degli anni ’80 e ’90 che erano più uomini che calciatori. Mio padre ha battezzato la figlia di Jorge Juary; Salvatore Di Somma considera mio padre un fratello, Stefano Tacconi e Franco Colomba si fanno sentire spesso come anche Barbadillo. Anche con i calciatori degli anni più recenti restano ottimi rapporti, in particolare con Giovanni Ignoffo e Giovanni Bucaro”.

A proposito, andate molto orgogliosi della collezione di maglie…

“Ho tutte le maglie dell’Avellino da quella del 1978/79, l’anno della promozione, fino ai giorni d’oggi. Sono tutte conservate e custodite in modo maniacale, alcune nel ristorante. Sono autentiche perché donate dagli amici calciatori a fine partita”.

Che momento è per la ristorazione così bersagliata dai provvedimenti per il contenimento dell’emergenza sanitaria: c’è mai stato un momento di vero sconforto e che futuro vedi?

“E’ un momento brutto da un anno. Avevamo ritmi abbastanza alti e abbiamo ridotto tutto. A me dispiace per i collaboratori che abbiamo dovuto mettere in cassa integrazione. Ci siamo fermati solo nel mese di marzo perché con l’albergo, anche se a singhiozzo, siamo rimasti sempre aperti. Nessuno si aspettava di vivere una situazione del genere, neanche mio padre che ne ha viste tante; in 35 anni ho vissuto gli anni ’90, che sono stati i migliori per l’Italia, gli anni 2000 di flessione, la ripresa del 2010 e ora questo stop brusco che ha fermato tutto. Però io vedo un futuro roseo perché appena ne usciremo la gente si scatenerà con la sua voglia di uscire, mangiare fuori, vivere di nuovo”.

Nel periodo successivo al primo lock down siete diventati visibilmente più social: è necessario questo per attirare clienti in un momento difficile?

“Siamo diventati più social perché la gente sta sempre davanti al telefonino in questo momento. Ma io mi diverto perché il lavoro per me non è un peso nonostante sia comunque un lavoro stressante. Mi piace quindi condividerlo con le persone e questo migliora il rapporto: loro danno e ricevono consigli pure sulla cucina”.

In cosa si distingue la cucina irpina da quella più classica napoletana?

“Sono due zone molto differenti. Alcune cose sono in comune, sono molto vicine. Il ragù per esempio è simile. La cucina marinara napoletana è comunque diversa; noi come ristorazione di mare ci avviciniamo molto con il nostro classico spaghetto alle vongole e la frittura di pesce. La differenza poi è la materia prima: i nostri funghi porcini e i nostri tartufi sono quasi a km zero”.

Lo chiediamo a tutti i nostri conterranei: la pizza preferita da Diego?

“Sono una persona dai gusti classici: mangiare una Margherita come si deve è la cosa più bella che c’è. Quindi io resto tra Margherita e Marinara”.

Dario De Simone