Un po’ di Capri a due passi da Bergamo: la storia di successo di Bruno Federico

Un ristorante di alto livello ma a conduzione familiare. E’ la definizione forse più azzeccata per inquadrare La Caprese di Mozzo, punto di riferimento per mangiare pesce per tutta la provincia di Bergamo e per tanti altri.
Si trova in un luogo anonimo perché non è altro che una villetta in una zona non centrale del piccolo comune del Parco dei Colli di Bergamo. Il ristorante è lì da 46 anni, da quando Bruno Federico e la moglie Giuseppina Gargiulo decisero di tentare un’impresa che all’epoca sembrava titanica: esportare la cultura del pesce nella Bergamasca con il prezioso supporto del loro luogo d’origine, l’isola di Capri. Una zia di Bruno aveva sposato un uomo di quelle parti e per lui, appena 22enne, Bergamo era una seconda casa.
Nel corso degli anni si è aggiunta la figlia Antonella che ha portato quel contributo di freschezza che dovrà avviare l’attività verso il 50° anniversario.

Vi trovate alle porte di Bergamo: come avete scelto?

“Per 30 anni, dal 1975 al 2005 siamo stati in una location diversa, sull’antica via Briantea. Nel 2005 ci siamo spostati verso la collina, solo 300 metri verso Bergamo ma sempre sul territorio di Mozzo. La nostra sede è una villetta adibita a ristorante; diciamo che abbiamo trasformato in ristorante la cucina di casa”.

Quando si parla di “cucina marinara caprese” cosa s’intende esattamente?

“S’intende la cucina dei miei nonni che pescavano con le nasse, papà andava a pescare con loro. Erano ‘rezzaroli’. Quindi era la cucina di casa, il pesce che si prendeva si cucinava. Abbiamo iniziato in una zona dove il pesce lo mangiavano solo il venerdì per motivi religiosi . Ricordo che avevo appena 22 anni. Del resto a quell’età si può fare tutto perché si è incoscienti. E se si sbaglia ci si può rifare”.

Però non fu una scelta sbagliata; anzi è andata bene?

“E’ andata alla grande. E da noi passano tutti. Abbiamo clienti da ogni zona, anche Austria, Francia, Svizzera. C’è gente che viene qui da generazioni anche perché abbiamo mantenuto stessa filosofia: numeri limitati, puntare sulla qualità”.

Qual è il vostro piatto forte?

“Direi il pesce sfilettato a crudo con olio e limone che è una cosa tipica che abbiamo portato noi. Ma anche l’insalata di mare con molluschi e crostacei piace molto; abbiamo aggiunto i frutti di mare che erano poco capresi. La fortuna è essere vicino Milano che è ancora il maggior mercato ittico d’Europa. Avevamo un fornitore che ce lo dava prima che andasse sul mercato”.

Quanto conta aver esportato il nome di Capri?

“E’ il 50%, almeno il 50%. Ancora più di Napoli, Sorrento e altri. Perché raffigura l’élite, è il nome che la gente subito percepisce e dal quale viene affascinata”.

Però l’avete esportato: nemo profeta in patria?

“Sì, come diceva De Filippo per Napoli il presepe era bello ma i pastori sbagliati. La verità è che a Capri c’è troppa facilità di lavoro. La gente ci viene sempre e comunque, quindi non c’è bisogno di attirare troppo. Qui a Bergamo abbiamo dovuto mettere in campo tutti i giorni cultura e capacità professionale. E qui le apprezzano molto, soprattutto apprezzano il servizio attento e di qualità. Che non è da confondere con la servilità che spesso si vede a Capri”.

Che biennio è stato per la ristorazione così bersagliata da provvedimenti restrittivi?

“Contro la ristorazione italiana c’è stato un accanimento ingiustificato provocato soprattutto dall’ignoranza e dall’incapacità dei nostri governanti. Questi personaggi non comprendono che in Italia la ristorazione è cruciale per chi ci vive e per l’immagine del Paese all’estero. Il Governo ha preferito il qualunquismo, ha trattato noi ed altri come non essenziali. Per due anni abbiamo ascoltato cretinate senza che fosse neanche chiesto un parere alle nostre associazioni di categoria. La pandemia ha evidenziato la distanza profonda tra i politici mediocri e il popolo italiano”.

Bruno con la figlia Antonella

E quanto vi hanno colpito questi provvedimenti?

“Tanto, anche perché prima hanno fatto protocolli severi e poi hanno preso provvedimenti assurdi. Si pensi che nel 2020 non ci hanno permesso di accendere ventilatori e condizionatori perché era pericoloso, poi un anno dopo ci hanno detto che faceva bene. Noi però sul lungo termine non abbiamo avuto modifiche sostanziali: i nostri tavoli erano già molto distanti: in pratica ne avevamo 50 e siamo scesi a 40. Del resto è la capacità della cucina a condizionare il numero di tavoli. E noi abbiamo sempre voluto privilegiare la qualità. Potremmo aumentare i posti e ingrandirci, invece tutto deve restare così”.

Lo chiediamo a tutti i nostri compaesani: qual è la pizza preferita da Bruno?

“Mi piace la pizza fatta alla napoletana. Mi piacciono Margherita e Marinara; e pure il calzone a bocca di forno”.

E un campano doc cosa pensa di questa deriva gourmet che sta riguardando anche la pizza?

“In generale è in atto una contaminazione di altre culture. Penso che dovremmo fare come i francesi che con ferreo nazionalismo difendono le loro specialità, i loro piatti. Noi ci stiamo facendo contaminare da queste cose: sushi e kebab sono ormai di fatto piatti italiani, mentre cucina vegetariana e vegana sono in crescita. Perché non si evidenzia il prodotto italiano che all’estero è così apprezzato? E’ il mio cruccio quando penso al futuro. La nostra è cucina del territorio, non cucina classica. E’ quindi basata sulla disponibilità di quel territorio. E la nostra al Sud è basata anche sulla salute: si pensi al grano con poco glutine rispetto a quello modificato che sta creando problemi. Quando mi chiedono il salmone, rispondo che il salmone per Capri non passa”.

Dario De Simone